Coraggioso, duro, difficile: è l’American Idiot firmato Iacomelli
di Lucio Leone e Paolo Vitale – foto di Giovanna Marino
Paolo Vitale: L’abbiamo metabolizzata abbastanza questa recensione di American Idiot? Ci buttiamo? Vorrei iniziare facendoti io una domanda: quanto eri curioso di vedere in scena questo titolo?
Lucio Leone: Mannaggia. Cominciamo subito con una risposta complessa. Ok, mi adeguo. Rispetto al ritardo con cui usciamo diciamo che essendo stati i primi a “lanciare” in esclusiva la notizia del titolo in Italia, avevamo forse un piccolo conflitto di interessi. Dire “la nostra” ora che la prima parte di repliche è conclusa e manca tempo per la tournée della prossima stagione, ci esime dal rischio di apparire parziali e ci permette di fare delle riflessioni più vaste non solo sullo spettacolo in sé ma su cosa sia portare nel nostro Paese questo genere di Teatro. Mi chiedi quanto fossi curioso di vedere American Idiot. Onestamente poco per il titolo in sé. Come spettatori siamo anche noi soggetti a gusti personali, e la colonna sonora non è proprio il mio genere. Come giornalista di settore invece molto. Perché ero curioso di vedere come avrebbe reagito il pubblico italiano, perché stimo molto Iacomelli come regista, e perché dopo quella bellissima pagina di teatro che è stato l’allestimento italiano di Next to Normal era inevitabile cercare di capire che strada avrebbero intrapreso i produttori. E tu?
PV: Io attendevo anche il titolo sinceramente. Uno spettacolo molto “americano”, dai temi forti e completamente inedito per l’Italia. Ho fatto indigestione di family show dal finale “volemose bene“! Il teatro deve anche dare pugni nello stomaco!
LL: Oh, ma spesso li dà, li dà! Per esempio quando tu ti aspetti un bello spettacolo e certe compagnie italiane mettono in scena la sagra della polpetta (notato? sono stato gentile. Avrei potuto usare “porchetta” ma mi pareva eccessivo. Nei toni, non nel senso). Certo non era il caso di American Idiot, il cui team creativo era già sulla carta una garanzia. E devo dirti subito che le aspettative non sono state deluse, almeno dal punto di vista dello spettacolo. Ho trovato che ci fosse una quantità di Teatro, di idee, di dettagli molto superiore alla versione di Broadway. Quella mi aveva colpito essenzialmente per l’energia, questa invece mi ha catturato per ricchezza di pensiero. La regia di Marco Iacomelli è stata capace di fornire una lettura personale del titolo, di integrare scene, proiezioni, luci, costumi e coreografie in un insieme coeso e logico. Di trovare attori (notato di nuovo? È notorio io detesti il termine “performer”, ma in effetti in questo caso è proprio necessario invece chiamarli “attori”) che andavano da “adeguato”, a “bravo” a “eccellente”. I 95 minuti mi sono volati. Sono stato catturato da questa festa per gli occhi.
PV: Si, il lavoro di Iacomelli è stato davvero ottimo. Ha fatto scelte forti che possono piacere o non piacere, ma ha scelto. La regia di Iacomelli non è quella da vigile urbano che gestisce il traffico di ingressi e uscite da dietro le quinte: la sua è vera direzione teatrale. Rispetto all’originale di Broadway direi che questa versione italiana ha cambiato un po’ il piano semantico. Mi spiego meglio. American Idiot è un musical politico. Molto politico. Iacomelli tuttavia sembra aver voluto spostare il piano di lettura da quello prettamente politico (giusto accennato) a quello antropologico, più universale quindi. Hai avuto anche tu questa impressione?
LL: Assolutamente. Ma del resto come hai detto tu è una storia americana, che doveva essere adattata e universalizzata proprio, e paradossalmente, per non snaturarne il messaggio. Che poi… è quello che deve saper fare un regista. Se no farebbe l’ausiliario del traffico. Sul palco. Malgrado tutto però ho anche qualche perplessità in questa lunga e doverosa carrellata di apprezzamenti, ma se sei d’accordo me la riservo per dopo. Prima direi di affrontare nel dettaglio gli aspetti tecnici. Vai tu, cominciando dalle luci di Valerio Tiberi?
PV: Vuoi proprio sfondare porte aperte! Le luci di Tiberi in American Idiot sono da manuale. Proprio come tutto lo spettacolo possono piacere o non piacere, ma teatralmente sono esemplari. Tiberi ha combinato le luci da concerto live con luci da “spettacolo scritto”. Non è certo una novità per il musical, ma alcune scelte tecniche e le difficoltà intrinseche di questo allestimento (pensiamo alle pareti laterali totalmente chiuse) hanno dimostrato ancora una volta il talento di Tiberi.
LL: Apprezzo molto Tiberi, anche se onestamente in altri spettacoli firmati da lui non ho ritrovato la stessa “mano”, lo stesso grado di assoluta perfezione di American Idiot. E sì: le ho trovate da manuale perché non si limitavano a “illuminare”, ma aiutavano la narrazione e l’azione scenica in maniera perfetta. Se posso continuerei io con le coreografie di Michael Cothren Peña. Ne ho apprezzato idee e pulizia. Un testo e una musica così energetica correvano il rischio dello sbraco (lo dico? nella versione americana un po’ mi pare sia successo). Qui tutto era sensato. E concludo con l’uso delle proiezioni dei video (a cura di Antonio Simone Giansanti, con illustrazioni di Rosemary Amodeo) che per una volta… oh! lo dico con una soddisfazione immensa: tu lo sai che detesto le proiezioni didascaliche persino più del termine “performer”… per una volta dicevo erano parte integrante delle belle scenografie di Gabriele Moreschi! La sparo enorme: mi sono piaciute. A me. Proiezioni a teatro! Capisci? Meriterebbero un premio solo per quello.
PV: Si è vero, le proiezioni sono state ottimamente integrate con tutti gli altri aspetti: luci, scene, musica… Veniamo quindi al tasto più dolente: le traduzioni. A tal proposito sia il pubblico sia la critica si sono spaccati a metà. Tu cosa ne pensi?
LL: Mah… in questo specifico caso credo che le traduzioni fossero fuori questione. Le canzoni sono famose, e per di più come puoi anche solo pensare di cantare questo tipo di rock con una metrica che non gli appartiene? Quindi io sono assolutamente a favore delle canzoni non tradotte. Qui. La questione sul “tradurre o meno” in generale richiederebbe molto più spazio e tempo e soprattutto dello Xanax a valanghe per moderare tutti quegli appassionati di musical che ciclicamente si prendono a parolacce (…in italiano per lo più) sui gruppi Fb dedicati in cui si analizzano gli ultimi allestimenti in tema di teatro musicale e che magari vorrebbero intervenire sulla questione. E noi, essendo democratici, li faremmo intervenire. Ma democratici e non scemi, per cui rimandiamo il discorso. Se poi, invece, mi vuoi chiedere cosa penso della scelta di lasciare il pubblico del tutto all’oscuro del senso di cosa stessero cantando gli attori in scena… be’ questa è una cosa diversa. Come ti dicevo prima detesto in genere le proiezioni, quando sono didascaliche. È vero che il senso delle liriche non era strettamente legato alle azioni sceniche, ma non importa. Dei sovratitoli, o meglio ancora delle proiezioni di traduzioni “emozionali” come fece a suo tempo “Spring Awakening” credo avrebbero aiutato il pubblico italiano a calarsi nella magia. Questo American Idiot credo sarebbe stato pronto per Broadway. Paradossalmente non penso lo fosse per l’Italia.
PV: Io sono molto combattuto al riguardo. Ammetto di essere partito da una posizione identica alla tua. La soluzione evocativa di Spring Awakening è stata il mio primo pensiero. Poi ho intervistato il regista e le mie certezze sono crollate (qui il video). La sua è stata una scelta lucida e ponderata. La motivazione di non inserire nemmeno i sovratitoli è dovuta al fatto, mi ha spiegato Iacomelli, che American Idiot è uno spettacolo “emotivo”. Secondo il suo parere le traduzioni non solo sarebbero state superflue, ma avrebbero pure distratto gli spettatori dal flusso di emozioni che intendeva far scaturire dal palco. A Iacomelli non interessava che il pubblico capisse il significato di ogni singola parola: un urlo di sofferenza rimane un urlo di sofferenza… in qualsiasi lingua esso sia. Lo so, è una scelta molto forte e discutibile. Ma la reputo coraggiosa e stimolante. E se Iacomelli avesse ragione? Ricordo una celebre citazione di Bertolt Brecht: “Se la gente vuole vedere solo le cose che può capire, non dovrebbe andare a teatro; dovrebbe andare in bagno.“. Forse stiamo davvero crescendo un pubblico teatrale incapace di porsi delle domande, incapace di approfondire. Pigro. Iacomelli a questo proposito ha anche pensato ad una lodevole iniziativa: premiare lo spettatore cerebralmente attivo! Mi spiego: chiunque non avesse capito American Idiot la prima volta, con un solo euro sarebbe potuto ritornare a vedere lo spettacolo. Ciò presuppone chiaramente la volontà dello spettatore incuriosito di approfondire tra una visione e l’altra. Con sincerità, dubito che qualcuno ne abbia veramente approfittato, ma è forse colpa di Iacomelli se lo spettatore italiano medio non si prendere nemmeno la briga di cercare su wikipedia la trama di uno spettacolo? Ultima considerazione e chiudiamo il capitolo traduzioni. E’ vero, nell’opera lirica i sovratitoli funzionano alla grande. Ma mi permetto di evidenziare due aspetti: 1) i tempi dilatati dell’opera non sono quelli serratissimi di American Idiot. Leggere le traduzioni a quella velocità sarebbe davvero un’impresa! 2) I melomani sono un pubblico colto e attento che studia il titolo che si accinge a vedere prima ancora di varcare le soglie del teatro. Il pubblico dell’opera è un pubblico attivo che non subisce passivamente lo spettacolo. Forse Iacomelli ha davvero ragione: è il pubblico del musical a dover cambiare!
LL: Forse. Lo Iacomelli regista. Mi auguro solo che lo Iacomelli produttore però non lo debba aspettare incavolato a fine stagione con i resoconti economici in mano. Ma il coraggioso e motivato Iacomelli regista ha sicuramente messo in piedi uno spettacolo dandogli una lettura personale e riuscita, ha saputo coniugare visione e tecnica, circondandosi di un grande staff. Come non citare la direzione musicale di Riccardo Di Paola, la supervisione di Simone Manfredini, il disegno fonico di Donato Pepe (peccato solo che ci siano stati problemi tecnici che non hanno garantito una perfetta diffusione del suono nel teatro), i costumi di Maria Carla Ricotti, la consulenza artistica di Andrea Ascari e la immancabile presenza di Davide Ienco con Fabio e Alessio Boasio come produttori esecutivi? Ma, detto questo, arriviamo anche a parlare degli interpreti. Io, come ti dicevo, ho apprezzato molto il cast, che ho trovato, per una volta davvero ben scelto. Qualcuno m’è, inevitabilmente, piaciuto di più, qualcuno meno, ma il livello non scendeva mai sotto il “perfettamente accettabile”. Tra questi permettimi di spendere una parola per lodare pubblicamente le interpretazioni di Mario Ortiz che è un magnetico St. Jimmy e di Natascia Fonzetti che, titolo dopo titolo, si conferma una delle giovani attrici (come mi piace per una volta usare questo termine in maniera assolutamente convinta) più talentuose nel panorama del nostro teatro musicale. Concludiamo con la domanda di rito: prenderesti un taxi per andare a vedere American Idiot?
PV: Assolutamente si: un taxi, una Enjoy, Uber… American Idiot va visto. Punto.