Beatrice Cenci: convince il nuovo lavoro di Simone Martino e Giuseppe Cartellà diretto da Davide Lepore
di Ilaria Faraoni
Al Teatro Greco di Roma, dopo la partecipazione estiva al Festival Pantheos, è andata in scena Beatrice Cenci, un’Opera drammatica nata da un’idea di Simone Martino, autore di musiche e orchestrazioni, nonché del libretto, insieme a Giuseppe Cartellà (la presentazione su Central Palc QUI).
Lo spettacolo, presentato dalla compagnia teatrale Il Caravaggio, ha vinto il concorso Domani, Forse Broadway, indetto proprio dal teatro diretto da Renato Greco, ed è entrata così di diritto nel cartellone dell’attuale stagione teatrale, piazzandosi anche tra i finalisti del premio PrIMO, al suo secondo anno di attività.
La vera storia, più o meno romanzata, di Beatrice Cenci, giovane nobildonna romana processata nel 1599 per il parricidio del violento padre, il conte Francesco Cenci (in precedenza giudicato colpevole e imprigionato anche per diversi delitti) e condannata alla decapitazione insieme alla seconda moglie di lui, Lucrezia Petroni ed al fratello Giacomo Cenci (che verrà addirittura squartato), è presa come spunto per coinvolgere gli spettatori e farli riflettere sul tema della violenza sulle donne, ancora oggi di triste attualità.
Efficace, a questo scopo, è l’istituzione di un parallelo tra Beatrice ed una donna dei giorni nostri, Claudia, vittima degli stessi abusi, che narra la storia della protagonista leggendone il diario.
L’allestimento attuale è in forma semiscenica, a metà tra il concerto ed uno spettacolo completo, ma la cosa non dispiace affatto, anzi: le soluzioni registiche di Davide Lepore sono interessanti e valorizzano al meglio gli intenti degli autori, tanto da far nascere il pensiero che una versione tradizionale potrebbe banalizzare il lavoro.
La scena è divisa in tre spazi, nei quali vigono regole diverse. Alla destra del pubblico una cappella, dove spesso Beatrice è in preghiera o scrive il suo diario; alla sinistra degli spettatori lo spazio, invalicabile, della donna moderna, Claudia, che dal suo letto dà voce alla mano scrivente della Cenci, in una continuità ed in una comunione spirituale che annulla i secoli di distanza.
Se Beatrice, in quanto motrice della storia, può sconfinare dallo spazio in cui è da sola a quello in comune con gli altri personaggi, per poi giungere fino alla zona più alta della scenografia, quella del boia, nel finale dell’opera, gli altri protagonisti, quelli che agiscono nello spazio centrale del palco, sono confinati in esso, rimanendo in scena per tutto il tempo: sono in piedi davanti alle aste dei microfoni quando gli avvenimenti li chiamano in causa; tornano nell’ombra, sedendosi ognuno sulla propria sedia disposta in fila con le altre, quando il rispettivo personaggio ha momentaneamente esaurito il suo compito. Lo spazio degli interpreti è ulteriormente delimitato da strisce di tappeto rosso che vanno dalle sedie ai microfoni: del resto ogni personaggio di tale luogo deputato è intrappolato dagli avvenimenti determinati dalle azioni e dalle decisioni di Beatrice, quindi esplicitare tale situazione anche a livello visivo risulta un’ulteriore mossa vincente.
Dinamiche separate hanno poi il bargello ed il giudice che condannerà i Cenci proprio perché le sorti di tali personaggi non dipendono da Beatrice. Il primo entra in scena dall’ingresso della platea, attraversandola e interagendo fisicamente con gli spettatori, per poi muoversi liberamente anche in diverse zone del palco; il secondo è collocato in uno spazio ben preciso, in una posizione elevata che vuole forse evidenziare il potere di cui egli si sente forte ed in cui si compiace.
Il disegno luci, stando a precedenti comunicati, dovrebbe essere dello stesso regista, Lepore (il tecnico è Federico Millimaci), e mostra un sapore narrativo molto spiccato: particolarmente apprezzati i fasci di luce che si spengono netti sul destino degli altri condannati a morte, mentre quello su Beatrice si dissolve gradualmente perché per lei non è ancora finita: il pubblico assisterà al momento della sua decapitazione.
L’unica nota che stona, in questa opera di regia, è la testa della Cenci brandita dal boia: troppo finta e, al tempo stesso, troppo “realistica” in un contesto in cui si è costruito molto sul simbolico o su situazioni non esplicitamente raccontate ma suggerite, basti pensare al personaggio di Claudia o all’efficacissima scena della tortura “a distanza” di Olimpio, separato dal luogo del carnefice, ma sofferente ad ogni suo gesto.
Le musiche e le orchestrazioni di Simone Martino sono importanti e speriamo, un giorno, possano trovare piena espressione in un’orchestra dal vivo, anche se i tempi che stiamo attraversando rendono sempre più lontane operazioni del genere. Martino con il suo lavoro compositivo riesce a raccontare a pieno la drammaticità delle vicende narrate senza la pesantezza che si potrebbe generare. La parte più leggera ed in qualche modo ironica, quella legata all’arrivo del bargello ed alla presentazione del giudice, è ben equilibrata e si integra, senza stonature, con il resto. Le liriche ed i testi scritti con Cartellà riescono a costruire bene i personaggi ed i rapporti che intercorrono tra loro.
Gli interpreti. Sharon Alessandri è Beatrice Cenci. Convincente in un ruolo non facile, cui è riuscita a dare la giusta intenzione, Sharon sembra ancora in crescita artistica, mostrando di essere molto più a suo agio sui toni medi, dove modula anche maggiormente la voce, che su quelli alti, sui quali potrà di certo affinare ancora il lavoro.
Giuseppe Cartellà che oltre ad essere coautore delle liriche e dei testi è coinvolto anche sul palco, nelle vesti del crudele Francesco Cenci, restituisce al pubblico una cattiveria ed una bestialità molto credibili anche se queste risultano maggiormente espresse nel canto rispetto alle parti recitate, dove dovrebbe osare di più, donando maggiore verità.
Enrico D’Amore dà un’altra prova di grande sensibilità artistica e interpretativa: quando propone un ruolo non rimane in superficie, scava a fondo nei personaggi che interpreta e qui non si smentisce, facendo propri la rabbia, il bisogno di amore paterno e, allo stesso tempo l’odio nei confronti di Cenci senior ed esprimendo tali sentimenti anche con i tremiti del corpo, che non tradiscono alcuna finzione. Supportato da una tecnica vocale eccellente e mai fredda, che gli permette il controllo in ogni situazione (e qui sta la differenza tra un artista preparato per fare teatro musicale e un artista che non lo è, come si è evinto in altre occasioni), D’Amore propone un Giacomo Cenci verso il quale si prova subito empatia.
Mariagrazia Di Valentino colpisce nel ruolo di Lucrezia Petroni che, pur non essendo così centrale nella storia, è reso talmente bene da catturare l’attenzione.
È sempre un piacere, poi, ascoltare la voce di Lorenzo Tognocchi, qui nel ruolo di Olimpio, ed assistere alle sue interpretazioni piene di sentimento e verità, in questo caso altrettanto forti nel duetto d’amore e nella scena della tortura.
A proposito del duetto d’amore con Beatrice, a livello autorale, registico o interpretativo, andrebbe forse evidenziata, in qualche modo, la finzione di lei, che usa Olimpio per i suoi scopi senza amarlo, cosa che il pubblico viene a sapere subito dopo senza però coglierne prima almeno un sentore.
Paolo Gatti è a suo agio con il personaggio del giudice, diabolico e sadico rappresentante della giustizia papalina. La sua impostazione lirica esalta, in questo caso, il potere superiore che egli rappresenta.
Marco Manca è una sicurezza di grande professionalità: con il ruolo del bargello riesce a dare un guizzo di verve nel contesto generale, che è molto grave, senza che l’inserimento strida e non è facile, soprattutto perché il suo personaggio arriva solo nel secondo tempo, quando il pubblico ha già preso familiarità con un certo tipo di mood. Doppiamente bravo, quindi.
A livello di scrittura del personaggio si sente però il bisogno di un passaggio in più che gli autori potrebbero sviluppare: risulta troppo netto, infatti, lo stacco tra l’entrata e la successiva severità con cui poi il bargello svolge l’interrogatorio nel corso delle indagini sulla morte di Francesco Cenci.
Un applauso infine a Ilaria Deangelis, che con il linguaggio del corpo, oltre che con le sfumature interpretative della sua voce, riesce a far passare il messaggio voluto, mostrando agli spettatori anche quello che viene sottinteso.
Ultime note di merito vanno ai costumi di Laura Federico (assistente ai costumi Rita Pagano) che sono ricchi e raffinati e alle scene di Martina Salvetti Basta che non fanno sentire la necessità di costruzioni più imponenti.