Come ti tratto un classico
di Lucio Leone
Uno degli sport nazionali preferiti credo sia l’affermare “sì, però l’originale era meglio”, detto di un qualsiasi adattamento, teatrale o cinematografico che sia. E va bene, ammettiamolo: spesso è così. Ma qualche -rara- eccezione esiste. Per esempio credo questo sia proprio il caso di Chicago: oggi, secondo me, il film dà alla storia più di quanto faccia lo spettacolo a teatro.
Intendiamoci: dal punto di vista drammaturgico e della colonna sonora è, e sarà sempre un gran bel musical. Di più: un classico. Kander e Ebb hanno scritto un capolavoro e le idee di Bob Fosse (regista, coreografo e co-autore) riprese nel revival dei record che è ancor oggi in scena, sono state a loro modo una piccola rivoluzione nel mondo del teatro musicale.
Fosse ha il merito di aver letteralmente inventato un modo di ballare che è inimitabile e che quindi funge da paradigma su cui si è ricostruito lo spettacolo. Però, se guardate il film e apprezzate il lavoro fatto nel 2002 da Marshall con un tris di protagonisti come Gere, Zellweger e Zeta-Jones (a cui si aggiungono per fare filotto anche John C. Reilly e Queen Latifah) allora è dura tornare indietro, ripartire dalle origini.
Mi spiego meglio: Chicago nel 2015 dimostra tutti i suoi anni. Anzi, a voler guardare magari anche qualcosina di più. Ma per argomentare una affermazione come questa mi sa che sia necessario cominciare proprio dall’inizio: dunque, lo spettacolo originale è del 1975 e vedeva come protagoniste Gwen Werdon e l’intramontabile Chita Rivera (la prima fu brevemente sostituita per un infortunio da Liza Minnelli e questa breve parentesi con una cover d’eccezione decretò il successo dello spettacolo dopo un avvio piuttosto deludente).
Il revival invece -premiato con 6 Tony Awards– è del 1996 e da allora macina primati su primati, essendo andato in scena sera dopo sera senza soluzione di continuità fin da allora arrivando, lo scorso aprile, a collezionare la bellezza di 7645 repliche (è di fatto il revival più longevo della storia di Broadway). La cifra di Fosse, che come dicevo è inimitabile ed è stata ripresa pedissequamente da Walter Bobbie come regista e Ann Reinking come coreografa.
Guardi Chicago e vedi Fosse, in tutto e per tutto. E fin qui, tra omaggio, curiosità e record tutto bene.
Il problema è che andandolo a vedere nel 2015, tutto questo mantenere i performer costantemente in scena, annullare la quarta parete tra attori, pubblico, orchestra, l’avere il color nero come unico riferimento costante (costumi, scenografie, attrezzistica), questi echi di Brecht, avanguardia, Weill pensati come un atto di ossequio quasi museale a Fosse e ai suoi riferimenti oggi appesantisce in maniera greve lo spettacolo. Non si celebra il genio di Fosse, non lo si eredita: lo si imbalsama. Vien da pensare che avendo un tale colosso come modello questo fosse in qualche modo inevitabile, ma non è affatto detto sia necessariamente così: Pippin ad esempio, altro musical diretto originariamente da Fosse nel 1972 ed oggetto di un revival fortunatissimo la scorsa stagione, è riuscito a rendere vivo il legato di Fosse riprendendone l’ispirazione e gli insegnamenti e riproponendoli in una chiave attualizzata. Il punto è che Pippin è uno spettacolo del 2014, mentre Chicago è di metà anni ’90 e lì è rimasto, cristallizzato nel suo datato omaggio senza tempo.
Oh, intendiamoci: è pur sempre un musical di Broadway! Esci dal teatro frastornato dal talento e dalla perfezione con cui nella great white way sanno mettere in scena uno spettacolo. Il corpo di ballo per esempio è fatto da ottimi ballerini che per di più cantano e recitano come macchine da guerra. A Broadway dire “lavoro in Chicago” equivale ad avere la patente del fuoriclasse, e grazie a quei famosi costumi di scena che celebrano la sensualità del fisico dei danzatori vedi una chorus line di livello eccezionale che pare uscita da una rivista patinata soft porno, ma non posso evitare di pensare che in quell’ensemble ci sono performer che ricoprono quei ruoli da oltre dieci anni (come riporta il Playbill consegnato dalle maschere in teatro). Per cui mi chiedo se quando si infilano in una giarrettiera di pizzo o in una camicia di tulle non gli venga mai la voglia non dico di prendere parte a uno dei grandi hit della stagione presente come Fun Home o Something Rotten, ma anche solo di scappare davanti ai nazisti con Maria, o di saltellare sui tetti di Londra felicemente infagottati in tute da lavoro e ricoperti di fuliggine in un qualsiasi tour nazionale. Qualsiasi cosa pur di non dover più prendere le caratteristiche, incredibilmente sexy isolazioni di Fosse (che comunque, l’ho già detto che era un vero genio?).
In tutto questo, la vera sorpresa dello spettacolo è stata Brandy Norwood, che ricopre il ruolo di Roxie Hart in un limited engagement fino al 2 agosto. Eh sì, anche a New York il nome che fa botteghino è ormai prassi consolidata (ben lo sanno i produttori di Hedwig, che chiedendosi come rimpiazzare l’insostituibile Neil Patrick Harris hanno ben pensato di trovare un modo geniale per riportare a teatro lo stesso pubblico facendo ciclicamente ruotare star della televisione nel ruolo del protagonista).
La differenza rispetto alle produzioni italiane che utilizzano questo sistema sta tutta nella scelta della professionalità di chi viene ingaggiato (tradotto: non bastano tre mesi di lezioni intensive di canto e ballo per salire su un palco per offrire una performance di livello accettabile, anche se ami il musical e vuoi farlo a tutti i costi. E sì: ogni riferimento è del tutto intenzionale).
Brandy, vincitrice di un Grammy Award invece canta e recita (e balla) in maniera impeccabile, tanto che la sua Velma Amra-Faye Wright, che è Velma… fin dal 2005, un po’ scompare, fatica a tenerle il passo. Minuscole variazioni R&B, evidentemente nelle corde della cantante, ti sorprendono e ti ritrovi a pensare che sentire suoni inaspettati provenire dall’ugola di Roxie non sono colpe di lesa maestà, ma anzi linfa nuova per le canzoni. Che l’operazione sia riuscita o no dipende dal gusto musicale di chi ascolta, ma in ogni caso il talento di Miss Norwood rende (un po’ più) vivo lo spettacolo.
Restando nel paragrafo dedicato al cast vanno poi assolutamente nominati anche NaTasha Yvette Williams che è una splendida Mama Morton, Ivan Hernandez nel ruolo di Billy Flynn e un ottimo Raymond Bokhour come (Mr. Cellophane) Amos Hart.
Lo so che suona strano che un italiano azzardi una recensione in parte critica verso una delle indiscusse capitali mondiali del musical, e quindi non è su come affrontare un musical che azzarderò un consiglio, ma che diamine! viviamo in un paese che un po’ di musei se ne intende! Per cui il consiglio parte lo stesso: avete un classico? trattatelo come tale, studiatelo, amatelo, rispettatelo ma… non mettetelo in naftalina, dategli vita (sì, esatto: come avete fatto con il film!).
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Chicago
Ambassador Theatre
219 W. 49th Street
New York, NY 10019
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