Il Chicago vaudeville firmato Marconi e BSMT
di Paolo D. M. Vitale – foto di Giulia Marangoni
“Essere originali significa tornare alle origini”. A questa regola di gaudiana memoria deve essersi ispirato Saverio Marconi quando ha scelto il taglio da dare alla regia del suo “Chicago” messo in scena con gli allievi della Bernstein School of Musical Theater al Teatro Duse di Bologna, mezzano dei tre titoli della VII edizione del “A Summer musical festival” (Spring Awakining e Il bacio della donna ragno gli altri due).
Se è noto a tutti, infatti, il titolo di questo celebre musical, è altrettanto meno noto il suo sottotitolo originale: “A musical vaudeville”.
Nella primissima versione, quella del ’75, le caratteristiche dello spettacolo di “rivista” erano infatti molto più evidenti ed esplicite rispetto alla versione del ’93, quella che ha reso famoso lo show e che, anche attraverso la pluripremiata versione cinematografica di Rob Marshall, abbiamo tutti noi in mente. In questa seconda versione, infatti, rimasero immutate soltanto le coreografie (eterne!) di Bob Fosse, mentre tutto il resto fu ripensato con linguaggi estetici più contemporanei e astratti.
Ma torniamo al Chicago bolognese adattato in italiano da Giorgio Calabrese.
Come anticipato, Saverio Marconi deve essersi posto il difficile problema: come mettere in scena un titolo tanto iconico quanto complesso senza cadere nella duplice tentazione della copia idolatrante da un lato o del suo esatto opposto dall’altro, ovvero dello stravolgimento totale?
La risposta l’ha trovata in una sola parola: vaudaville.
Riappropriandosi del sottotitolo perduto, Marconi ha trovato la quadratura del cerchio coniugando perfettamente originalità – il tornare alle origini – e innovazione, proponendo una nuova rispettosa e personale lettura.
Un esempio su tutti: i numeri di questo “nuovo” vaudeville sono annunciati dall’ingresso in scena di cartelli scenografici in perfetto stile anni ‘20.
Un’idea apparentemente semplice, ma dal risultato importante: Chicago è teatro nel teatro (quasi un teatro al quadrato) e deve essere chiaro allo spettatore, sin dalla primissima scena, il parallelismo tra mondo della (in)giustizia e il mondo dello spettacolo, parallelismo che trova in Chicago la sua massima e ironica denuncia.
Ma la fatica di Marconi ricalca solo metà della fatica di Fosse dal momento che, come ben sappiamo, quest’ultimo firmò pure le storiche coreografie.
Il compito terribile di misurarsi col genio coreografico fossiano è toccato a Gillian Bruce e pochi in Italia, chiariamolo subito, sarebbero riusciti come lei ad uscire a testa alta dal confronto!
Senza voler fare paragoni azzardati, la Bruce ha ridato forma alle coreografie di Chicago accennando rispettosamente allo stile di Fosse – con numerose citazioni – ma ripensandole da zero e sfruttando al massimo il materiale umano e artistico che aveva a disposizione. Il risultato è stato assolutamente convincente e meritevole del nostro più sincero plauso.
Restando in tema di coreografie non possiamo non citare il giovanissimo Tommaso Parazzoli che, nel ruolo aggiunto del “vaudaville dancer”, ha incantato il pubblico del Duse col ritmo del suo travolgente tip-tap! Interessante anche l’uso drammaturgico che ne ha fatto Marconi inserendolo più volte come presenza “invisibile” ma significante all’interno delle scene.
E veniamo così finalmente al cast.
Alla rappresentazione a cui abbiamo assistito Roxy era interpretata da Elisa Gobbi, Velma da Alice Luterotti, Billy Flynn da Matteo Francia, Amos da Pierluigi Cocciolito, Mama Morton da Federica Rini e la giornalista Mary Sunshine da Tiziana Salerno. Un gruppo di giovani performer in formazione, come già scritto, alla Bernstein School of Musical Theater diretta da Shawna Farrell, che firma anche la direzione musicale dello spettacolo. Ottima prova di preparazione e talento per un titolo che richiederebbe una maggiore maturità artistica e anni di esperienza alle spalle. Il merito del successo generale va anche a tutti gli altri numerosi ragazzi in scena che, per ovvi motivi, non possiamo citare tutti, ma che sono ugualmente destinatari del nostro applauso.
Non possiamo invece non citare le ottime scenografie di Gabriele Moreschi, i riusciti costumi di Massimo Carlotto, il perfetto sound design di Tommaso Macchi e le bellissime luci di Emanuele Agliati. At last but not the least, l’orchestra dal vivo (sempre in scena) diretta da una strepitosa Maria Galantino.
E giungiamo così al gran finale ideato da Marconi che è davvero una piccola chicca: Velma e Roxy, finalmente libere e famose, possono unirsi… alla line. Quale? Ma proprio quella dell’altro grande capolavoro che ha debuttato in quello stesso fatidico 1975: A chorus line. Come dire: si chiude una cerchio, ma se ne apre un altro.