COME ERIKA E OMAR: È TUTTO UNO SHOW
Enzo Iacchetti propone un testo di denuncia, in forma di black comedy musicale: al pubblico cogliere la giusta interpretazione.
di Ilaria Faraoni
Presentato e diretto da Enzo Iacchetti, con la regia tecnica di Alessandro Tresa, ha debuttato al Teatro Lo Spazio di Roma, un “diversamente musical” – come definito in locandina – davvero particolare, per la tematica: Come Erika e Omar – È tutto uno show.
Partito tra diffidenze e pregiudizi, con il pensiero che potesse trattarsi di uno spettacolo incentrato sui protagonisti dei delitti di Novi Ligure, il testo vuole invece essere una satira d’accusa contro un mondo senza valori che comincia già dalle famiglie, dove regna l’ipocrisia, l’incomunicabilità, il vizio, la superficialità e il credo nel profitto, fino ad arrivare al sistema dell’informazione, soprattutto quella televisiva, che sempre più sembra vivere dell’orrore e dell’interesse suscitato da casi come quelli di Novi Ligure, Cogne, Garlasco, Avetrana e via dicendo.
Un attacco feroce che potrebbe impedire allo spettacolo, secondo quanto affermato da Iacchetti in una replica, una diffusione televisiva, benché la stampa (che a rigor di logica dovrebbe sentirsi anch’essa chiamata in causa, anche se non esplicitamente rappresentata) abbia accolto favorevolmente il musical.
“Scegliamo il musical, genere leggero e per famiglie, proprio per raccontare con musiche originali, allegre e appassionanti e con coreografie in stile cartoon, il corto circuito tra la cronaca nera e l’intrattenimento, il dolore privato e il grande spettacolo televisivo”: così si legge nel comunicato stampa. Questa intenzione è evidenziata già dalla locandina, tutta luci da gran varietà, e dal sottotitolo stesso, È tutto uno show, che rappresenta la chiave di lettura che ha voluto dare l’autore Tobia Rossi (testo e liriche).
L’intenzione è molto valida e ammirevole: è un mezzo per combattere, in qualche modo, un sistema che davvero non si sopporta più, un modo per far passare, in maniera leggera (che spesso è quella più efficace), un messaggio importante, per far riflettere. L’impressione generale sullo spettacolo è senz’altro positiva, sia per il contenuto che si propone di veicolare, sia per l’allestimento, sia per gli artisti in scena: e il messaggio arriva, anche se con qualche “se” e qualche “ma”. Quindi, prima di elencare i punti forti dello “show”, è d’obbligo qualche riflessione su quello che, a parere di chi scrive, convince meno.
A differenza di quello che ci si aspetta leggendo la presentazione, infatti, la parte di critica ai mass media rischia di passare in secondo piano, vuoi perché la maggior parte della storia è focalizzata sulle vicende dei due fidanzatini emuli di Erika e Omar, Jessica e Christian; vuoi perché lo stile farsesco che contraddistingue la rappresentazione del mondo televisivo, a contrasto con la gran parte non farsesca dello spettacolo, può indurre il pubblico a prenderne le distanze; troppo sfasamento tra quello che si vede in televisione (tra inviati, opinionisti, criminologi, psichiatri) e la controparte “macchietta” che si vede sul palco. Gli spettatori potrebbero pensare che “Non è realmente così” e sottovalutare la critica che si vuol fare, relegando il tutto alla sfera dell’esagerazione.
Inoltre, non è stata focalizzata l’attenzione, se non di riflesso, sul pubblico, su tutti coloro che, bene o male, certe trasmissioni le guardano decretandone il successo e, probabilmente, quasi nessuno può sentirsene escluso: è solo colpa della televisione se ci appassioniamo alle storie di cronaca nera come se stessimo guardando un film giallo? Senza più pensare che dietro ci sono dolori strazianti, reali, si gioca a fare le ipotesi, i processi, ci si sente tanti piccoli Sherlock Holmes, si vuol sapere come va a finire. Certo, nel musical l’accusa agli spettatori è rappresentata dalla coppia – interpretata a ragione sopra le righe – che prende parte al famoso turismo dell’orrore, visitando i luoghi delle tragedie, fotografando, cercando souvenir, considerando Jessica e Christian quasi delle star. E ancora ci sono tutti i tipi strambi che inviano lettere di ammirazione a Jessica in carcere, facendone un’eroina. Ma non è la stessa cosa. Fenomeni di esaltazione ci sono sempre, in ogni campo: è la “normalità” che andrebbe analizzata, è quella la realtà più spaventosa.
Che dire poi di alcuni conduttori e di alcuni ospiti che, nella nostra televisione, montano in cattedra erigendosi a giudici, prendendo posizioni nette quando ancora non ci sono state sentenze certe? I tribunali si trasferiscono negli studi televisivi e fa paura che la cosa sembri ormai normale. Sarebbero questi, dunque, tutti punti da non sottovalutare e sarebbe interessante se lo spettacolo li prendesse in considerazione, proprio per raggiungere a pieno il fine che si propone. Si analizza invece soprattutto il lato del business, della voglia pazza di apparire, del cinismo.
Si vanno poi a colpire i concittadini degli assassini, compresi il sindaco ed il parroco dell’ipotetico paese di Santa Serena, spinti dagli stessi moventi dei personaggi televisivi di cui sopra, tutti dediti all’apparire, pronti a nascondersi dietro un falso moralismo di facciata, a negare il perdono a Christian che, assolto dalla giustizia, è tornato in paese; lo si caccia, ma si specula e ci si arricchisce alle sue spalle, perché la tragica vicenda ha portato il Comune alla ribalta, ottenendogli anche l’attenzione, fino a quel momento assente, di Provincia e Regione. Senza alcun tipo di bigottismo, coinvolgere la Chiesa in un discorso del genere, sembra alquanto arbitrario e si rischia di generalizzare, visto che il personaggio di Don Falco appare più uno stereotipo che un caso specifico, come pure i personaggi del Sindaco e dei paesani.
Molto più approfondito è invece il discorso sulle famiglie, fautrici di un vuoto a 360 gradi anche se la linea che divide la colpevolezza di queste ultime da una sorta di giustificazione delle gesta delittuose dei due ragazzi, è molto sottile: sta soprattutto al pubblico non varcare questo confine. Altro confine che il pubblico non deve valicare è quello che riguarda la figura di Jessica, fredda ideatrice e sola esecutrice dell’assassinio di madre, padre e fratello, che più volte parla e canta di libertà, in senso distorto, ovvio, ma la linea divisoria, data anche la liricità della musica che coinvolge certe affermazioni, è pericolosamente evanescente, soprattutto per giovani spettatori magari non ancora del tutto formati. Il rischio è accentuato anche dalla catarsi finale del personaggio: Jessica, al termine dello spettacolo si pente, invoca la mamma che ha ucciso e che ora le manca, perché viene tradita e usata anche da Christian, che la lascia dopo aver intascato i soldi per l’esclusiva delle loro nozze, ha paura: la feroce assassina diventa l’unico personaggio positivo della storia, se non altro l’unico “umano” in un mondo di corrotti e di “mostri”.
Efficacissimo invece il dito puntato contro il fenomeno che rende divi da copertina gli autori di efferati delitti: questa malsana tendenza viene presa in considerazione in buona parte del musical, grazie anche alle figure di altri due detenuti che richiamano, nei nomi, i protagonisti della strage di Erba; nel testo, a questo proposito, è presente anche il compiacimento dei diretti interessati: la popolarità è la meta, come e perché quel posto al sole si guadagni non conta.
La condanna alla spettacolarizzazione dei delitti, l’affermazione che sia tutto uno show, è esaltata da una serie di efficacissime coreografie tipicamente televisive, firmate da Alessandra Costa, basate soprattutto sui movimenti ripetuti delle braccia, come in un ritornello musicale o in un ballo di gruppo: da una parte questi momenti sottolineano il senso di “spettacolo” che si vuole comunicare, dall’altro evidenziano l’omologazione delle persone che sono protagoniste, contornano e stanno dietro a tutta la girandola mediatica e non.
Allo stesso scopo e alla stessa riuscita contribuiscono le musiche di Francesco Lori, che si ricordano al primo ascolto e che spaziano nei generi in forma quasi psicologica. Ci sono i ritmi latini (come il cha cha) sposati al sapore da sigla televisiva come nella canzone del titolo, “È tutto uno show”; poi ci sono i pezzi rock che accompagnano Jessica, la protagonista, e ancora i brani più lirici tipicamente “da musical” per i duetti “amorosi”. Da notare l’aggettivo “amorosi” scritto tra virgolette, perché una invenzione riuscita dello spettacolo è proprio questa: l’uso spiazzante che si fa della musica, quella più romantica; c’è lo sfasamento tra questa ed il contenuto che lirico ed edificante non è affatto, non può esserlo! In questo modo il concetto è rafforzato. Sembra un voler sottolineare: attenzione alle apparenze!
Grande la qualità artistica del cast, cosa fondamentale e, purtroppo, non così scontata di questi tempi. Rappresentare un testo del genere non è facile, c’è bisogno di artisti molto validi e qui ci sono, a cominciare dalla protagonista, Gea Andreotti, una vera rivelazione, alle prime esperienze lavorative, ma chi potrebbe immaginarlo? Gea si è calata così bene nel personaggio di Jessica da diventare realmente odiosa, così freddamente folle da spaventare sul serio. Il finale dello spettacolo, molto drammatico, rappresenta una prova attoriale che farebbe paura anche ad attori consumati e la Andreotti la supera a pieni voti.
Massimiliano Pironti si riconferma uno dei performers italiani più bravi e completi: ottima introspezione del personaggio, interpretazione capace di rendere ogni mutamento caratteriale e umorale del “suo” Christian, uno dei personaggi più ricchi di sfaccettature dello spettacolo.
Che dire poi di Paola Lavini, la mamma della protagonista, nonché, tra le varie incursioni in altri panni, anche la turista dell’orrore? Un’artista che vediamo spopolare in ruoli da caratterista, dove lavora con grande forza ed efficacia sulla fisicità, sulla voce e sul modo di parlare (qui gioca e diverte con il dialetto pugliese) ma che stravince anche nelle parti più misurate, così come in quelle drammatiche. Il personaggio della madre è forse il più difficile di questo musical: non può giocare sull’esagerazione pur avendo delle caratteristiche psicologiche che porterebbero in questo senso. È una donna probabilmente costretta alla superficialità da un marito che la blocca ogni qual volta lei provi a spingersi oltre; la sua realtà è fatta di deodoranti per la casa, cucina, amore per il suo salotto, paura del giudizio degli altri. Sarebbe stato facile farne una macchietta, invece l’interpretazione vincente della Lavini gioca sull’intimismo, sulla fragilità nascosta, coinvolgendo gli spettatori con un senso di compassione (nel senso letterale di patire con) per questa donna, ancora e soprattutto prima che venga uccisa dalla figlia.
E ancora c’è Marco Massari, nel doppio ruolo del Sindaco e del padre di Jessica, due facce dello stesso tipo d’uomo. Molto ben caratterizzati da Massari i due personaggi, anche a livello vocale e fisico.
Davvero riuscite le interpretazioni, tutte ugualmente importanti, del resto del cast che è, come si diceva, di alto livello: Manuele Colamedici, Gustavo La Volpe, Paola Giacometti, Matilde Facheris, Michele Savoia, Giada Lorusso, Fabrizio Coniglio, Chiara Anicito.
Colpisce ed è vincente anche l’impianto scenografico minimalista di Gaspare De Pascali: nero assoluto, con elementi di arredo dipinti solo nei contorni, in bianco; poche linee essenziali. Le sagome degli alberi seguono lo stesso principio, così come i pochi elementi architettonici (la Chiesa, per esempio). Una scenografia che forse vuole ribadire la finzione di tutta la situazione: se “è tutto uno show”, deve essere necessariamente tutto finto, così come il vassoio che non c’è, ma che si immagina, portato a tavola dalla madre di famiglia. Il palco è diviso in due punti uniti ad angolo ottuso e l’azione si svolge ora da una parte, ora dall’altra; è il pubblico che deve ogni volta girarsi in un senso o nell’altro, un po’ come accadeva con i luoghi deputati delle sacre rappresentazioni medievali; anche la disposizione delle sedie in platea perciò è particolare, incrociata e sbieca. Si tratta di una concezione molto interessante dello spazio. A sottolineare ancora una volta il tema della finzione, un pilastro che costituisce il raccordo tra i due spazi, un posto dietro al quale gli attori si nascondono quando escono di scena momentaneamente, come si trattasse di una quinta: un “non luogo” proprio al centro dello spazio.
Una piantina di Santa Serena, disegnata con lo stesso stile della scenografia, attende gli spettatori nel foyer, rendendoli quasi protagonisti di un tour dell’orrore: sulla carta infatti c’è uno specchietto che ne cattura i visi recante la scritta: “Voi siete qui”.
Assistente alla regia: Chiara De Pisa. Costumi: Mary Mataloni. Disegno Luci: Alessandro Molinari. Direzione musicale: Francesco Lori. Arrangiamenti: Danilo Ballo