Al Teatro Sistina il conte Tacchia da personaggio bidimensionale si trasforma e prende vita in carne ed ossa grazie al suo interprete originale, un Enrico Montesano artista a 360°
di Ilaria Faraoni
Presentato da Thalia Produzioni, ha debuttato il 22 febbraio al Teatro Sistina di Roma, dove rimarrà fino al 25 marzo, l’adattamento teatrale e musicale di un altro titolo famosissimo del cinema italiano, seguendo un filone iniziato negli ultimi anni: si tratta de Il Conte Tacchia, film del 1982 di Sergio Corbucci, che vedeva protagonista lo stesso Enrico Montesano, che ora interpreta e dirige la versione teatrale liberamente tratta, firmando anche il testo con Gianni Clementi (per il comunicato stampa con info dettagliate cliccare QUI)
Un Montesano in grandissima forma fa venire giù il teatro dalle risate con la sua vis comica, l’occhio sempre puntato con arguzia all’attualità e le doti attoriali e canore che tutti conosciamo e amiamo.
La storia principale, per chi non la conoscesse, è ambientata nel 1910 e narra le vicende di un giovane falegname, Checco, che aspira ad essere parte della nobiltà romana che ammira, tanto da essere chiamato da tutti Conte Tacchia. Il soprannome, infatti, gli deriva dal suo tentativo (maldestro) di assomigliare nei modi e nell’abbigliamento, alla classe sociale cui ambisce, ma anche dall’uso maniacale dei cunei di legno – tacchie – utilizzati per livellare mobili e quant’altro, che Checco porta sempre con sé. Fidanzato con la popolana Fernanda, ma attratto anche dalla spregiudicata duchessina Elisa, per un equivoco viene scambiato per Conte ed entra in contatto con quel mondo che tanto agogna, ma dal quale non verrà mai accettato, nemmeno quando nobile lo diventerà per davvero. Prima, infatti, guadagnerà il titolo di conte per mano del Re, che vuole servirsi di lui per farlo partecipare ad un duello al massacro, per difendere il buon nome dell’Italia e della nobiltà romana che, codarda e vendicativa, ha messo in mezzo Checco rispondendo a nome suo alla sfida, fatta a mezzo stampa, di un temibile nobile francese; poi guadagnerà altri titoli per mano del Principe Torquato Terenzi, nobile decaduto che, morendo, gli lascerà anche palazzo e debiti.
Come si legge nel comunicato stampa, con questo spettacolo l’artista ha voluto completare la sua trilogia di personaggi popolari romani iniziata con Rugantino (II edizione del 1978) e seguita, nel 2015, dall’adattamento teatrale de Il Marchese del Grillo, dove Montesano si è confrontato con il ricordo di Alberto Sordi (la nostra recensione QUI).
Rugantino, Onofrio del Grillo e il falegname Francesco “Checco” Puricelli detto Conte Tacchia, raccontano la Roma ottocentesca (i primi due) e, come si è già detto, quella dei primi del Novecento.
Tutti e tre i personaggi fanno riferimento a figure preesistenti: ad una maschera il primo, a persone realmente esistite (anche se vissute in anni precedenti a quelli della finzione) gli altri due: Francesco Puricelli rimanda infatti ad Adriano Bennicelli, soprannominato appunto Conte Tacchia.
Tutti e tre i personaggi, pur nelle differenze e caratteristiche peculiari, hanno dei tratti comuni: ovviamente la forte romanità, quella vera (in cui Montesano eccelle), quell’ironia che non li abbandona anche nelle situazioni più serie ed una certa indolenza, nonché un riscatto finale molto forte.
Interessante notare come tra gli autori del soggetto e della sceneggiatura della pellicola del Conte Tacchia ci fosse, oltre allo stesso Sergio Corbucci, a Luciano Vincenzoni e a Sergio Donati, anche Massimo Franciosa, che, guarda caso, aveva fatto nascere insieme a Garinei e Giovannini, Festa Campanile e Magni proprio la commedia musicale Rugantino.
E molto di Rugantino ritroviamo anche in Checco/Conte Tacchia, quando nel film lo vediamo alle prese con le sue vanterie che poi lo mettono nei guai e con la sua scarsa voglia di lavorare che sfocia in gag come quella della pendola.
Interessante anche notare come la versione teatrale 2015 del Marchese del Grillo, firmata (per quanto riguarda l’adattamento) dagli stessi Montesano e Clementi con l’aggiunta, in quel caso, di Massimo Romeo Piparo, avesse trasferito molto di Rugantino all’Onofrio originario di Sordi.
Nel Conte Tacchia teatrale, per assurdo, sembra invece che la “rugantinità” di Checco passi più in secondo piano, così come sembrano essere messi meno in evidenza, anche se presenti, alcuni temi che hanno fatto grande il film e che si sviluppavano anche nei dettagli: l’incolmabile differenza di classe sociale che non cessa neanche davanti alla morte che accomuna il Principe e Alvaro Puricelli (la bara del primo dovrà passare per prima, davanti a quella del falegname e sarà posizionata al di sopra, nel carro funebre); il degrado morale della classe nobiliare romana che Checco alla fine rifiuterà disgustato; il senso dell’onore e della giustizia che ispirano il protagonista nonostante la sua apparente superficialità.
Anche i personaggi che ruotano intorno al Conte Tacchia perciò, con il taglio dato alla commedia, risultano un po’ meno incisivi, primo fra tutti quello del Principe, che si fa beffe del Re, che rivendica le proprie origini patrizie e che dovrebbe sprizzare romanità nel linguaggio e nei modi di essere, quella romanità un po’ greve, filosofica e menefreghista al tempo stesso, ma fondamentalmente buona: qui il suo personaggio risulta un po’ troppo italianizzato e ripulito.
Nel complesso della commedia sembra che, sul senso più profondo, a tratti prevalga una comicità più legata alla battuta per la battuta o a quelle battute a sfondo sessuale ripetute per tutta la durata dello spettacolo, che comunque il pubblico gradisce molto. Si perdono anche quelle chicche geniali che caratterizzavano il protagonista: come non pensare alla tacchia che Checco mette anche sotto la bara del padre nel carro funebre, con grande tenerezza?
Sembra che il focus, con i tagli fatti, si sposti molto di più su Montesano, che ovviamente avvince il pubblico con le sue doti di grande mattatore del palcoscenico, che non si risparmia nemmeno nei numeri di ballo.
C’è da dire che comunque il rispetto per la sceneggiatura originale è stato fortissimo e le battute si ripetono quasi identiche a quelle della pellicola.
Ci si chiede però se alcuni dettagli e passaggi (l’incontro con la “leggera” duchessina Elisa, le due eredità alla morte del padre Alvaro e del Principe, che Checco pensava essere il suo vero genitore ecc.. ecc…) possano essere chiari a chi non abbia visto il film, come spesso accade nelle trasposizioni, soprattutto quelle dove c’è un cambio di mezzo espressivo che impone scelte diverse.
Molto indovinato l’aver aggiunto un sequel che apre e chiude lo spettacolo: dopo trent’anni di assenza, in piena liberazione post sbarco di Anzio, cui Checco ha contribuito in prima persona, l’uomo torna a Roma dall’America, luogo verso cui lo avevamo immaginato diretto con la sua Fernanda alla fine del film di Corbucci. Passo dopo passo Checco, divenuto un militare americano, ritrova i luoghi e gli amici di un tempo con una sorpresa finale che concluderà la commedia.
L’espediente del sequel è fondamentale innanzitutto a giustificare l’età di Montesano, che qui vive tutta la vicenda che conosciamo attraverso la pellicola, come se fosse un lungo flashback in cui egli entra gradualmente.
In secondo luogo la trovata permette alcune soluzioni registiche vincenti: è particolarmente poetica e suggestiva, ad esempio, la scena in cui raccontando al sor Capanna l’arrivo in America, Checco/Montesano dialoga con il ricordo della Fernanda di trent’anni prima, dalla quale è stato separato a Ellis Island, luogo dove gli immigranti che intendevano entrare in America erano interrogati, controllati e, in molti casi, rispediti in patria proprio come la ragazza.
L’aggiunta della tematica degli immigranti, permette poi a Montesano di fare velati riferimenti ai giorni nostri, in una tirata che sa molto dei monologhi comici dell’attore e che esula un po’ dalla costruzione della commedia vera e propria, con una formula che abbiamo visto anche nel suo “C’è qualche cosa in te” e che il pubblico apprezza moltissimo.
Altra soluzione registica da ricordare è quella che è riuscita a ricostruire le sequenze del duello itinerante tra Checco e il nobile francese, difficile da realizzare in teatro senza cadere nel banale e qui il tutto è reso con grande efficacia.
Una scena di atmosfera è poi quella della prima notte d’amore tra il Conte Tacchia e Fernanda, con due suggestive statue di angeli che prendono vita e, scendendo dalla balaustra della terrazza, coprono i due amanti con un velo bianco.
Le scene di Carlo De Marino ed il disegno luci di Luca Maneli concorrono molto strettamente alla riuscita degli effetti con il velatino, fondamentale nelle già citate scene del dialogo con il ricordo di Fernanda o in quella del duello.
La parte musicale è curata dal Maestro Maurizio Abeni, che se la deve vedere con le musiche originali del film di Armando Trovajoli, cui ha aggiunto brani di suo pugno che ben si integrano con la colonna sonora che comprendeva anche la canzone ‘N sai che pacchia. Del resto Abeni ha già avuto a che fare con la musica di Trovajoli grazie agli spettacoli da lui diretti musicalmente come Aggiungi un posto a tavola e Vacanze Romane.
La domanda è quella che ci si pone sempre davanti ad un film o ad uno spettacolo che non nascono come musicali e che lo diventano successivamente: è necessario trasformarli in commedie musicali?
La risposta è diversa a seconda dei casi: molto spesso è che non sarebbe stato necessario, perché il passaggio è sempre molto difficile. In alcuni casi infatti i quadri musicali possono risultare superflui e rallentare un po’ il ritmo narrativo (come, nella fattispecie, nella scena del telegramma, o in quella del tavolo da gioco). In altri momenti, invece, le canzoni riescono ad inserirsi bene dando quella emozione in più: nel Conte Tacchia è il caso, per esempio, dei duetti romantici tra Checco e Fernanda.
Il cast è quasi interamente lo stesso del precedente spettacolo Il Marchese del Grillo, salvo alcune eccezioni.
Dal taglio dato alla commedia risultano in modo particolare i personaggi e le interpretazioni di Benedetta Valanzano (la duchessina Elisa) ed Elisabetta Mandalari (Fernanda), mentre gli altri ruoli risultano un po’ più sacrificati, anche se interpretati da un cast tutto di livello: Giulio Farnese – Il Principe; Giorgio De Bortoli – Ninetto; Andrea Pirolli – Alvaro Puricelli; Monica Guazzini – La Duchessa; Michele Enrico Montesano – Lollo D’Alfieri; Roberto Attias – Duca Savello; Tonino Tosto – il delegato; Sergio Spurio – Sor Capanna; Giacomo Genova – Gualtiero; Gerry Gherardi – Ciriola; Ambra Cianfoni – Gertrude; Francesca Rustichelli – Mariuccia.
I solisti affrontano con grande capacità e forza le coreografie di Manolo Casalino, una delle quali, quella della festa sul Lungotevere, riprende abbastanza da vicino quella originale della pellicola: Valentina Bagnetti, Michela Bernardini, Saria Cipollitti, Annalisa D’Ambrosio, Viola Oroccini, Silvia Pedicino, Manuel Mercuri, Kevin Peci, Federico Pisano, Giuseppe Ranieri, Sebastiano Lo Casto, Rocco Stifani.