FIRMATO DA ALAN MENKEN, ARRIVA GALAVANT, IRONICO EROE MUSICALE
di Lucio Leone
Che succede se mescoli il talento da compositore di Alan Menken (alias Mr. “8 Oscar, 11 Grammy e un solo misero Tony”), da paroliere di Glenn Slater (qui la lista è più corta ma il ragazzo è ancora giovane e sta ancora contando i soldi dei diritti de La Sirenetta e Sister Act), da sceneggiatore di Dan Fogelman (ha scritto Rapunzel e un film per la Streisand, tanto per gradire) all’umorismo demenziale à la Mel Brooks incrociato con l’irriverente follia dei Monty Python? E magari condisci il tutto con una ambientazione molto vicina a una serie di successo come C’era una Volta? Succede che nasce Galavant, la nuova miniserie della ABC che ha appena debuttato in America lo scorso 4 gennaio.
Miniserie perché le puntate sono brevi, appena 20 minuti l’una, e poche: saranno infatti solo 8 divise in 4 settimane di programmazione e questo, benché sottolineato da molti commenti in rete come fatto negativo, penso sia un ulteriore colpo di genio.
Ma andiamo con ordine, prima di spiegare il perché penso sia un bene durata ridotta e numero esiguo di episodi -col rischio di addentrarmi in un ragionamento sofistico- è giusto parlare della qualità del prodotto. Oddio: il nome di Menken con cui ho aperto la recensione già di per sé potrebbe essere garanzia di eccellenza, ma si sa che a volte anche i grandi possono sbagliare un colpo. Quando si ripetono ad esempio, o se si prendono troppo sul serio, ma questo, per fortuna, non è successo con Galavant: Menken, che con Slater è anche produttore esecutivo, si è evidentemente divertito come un matto ad inventare e ad inventarsi un giocattolo su misura con una formula originale. Certo, per il piccolo schermo esistevano i telefilm-cult come Glee, esistevano le trasposizioni televisive paro-paro di classici teatrali come Camelot e Cinderella, ed esistevano quelle sciagurate “puntate musicali” di serie come Buffy o Grey’s Anatomy (che dovrebbero essere proibite da una carta dei diritti internazionali), ma finora nessuno aveva pensato di fare un musical a puntate.
Così. L’uovo di Colombo? Forse, è presto per dire se aprirà le porte a un genere, per ora limitiamoci a parlare di questo.
Trattandosi di musical va premesso che la colonna sonora è molto bella, sarebbe pronta per uno spettacolo di Broadway di successo: al primo ascolto è immediatamente orecchiabile senza essere banale ed è intelligentemente arrangiata (il pilot ha questo gioco di “reprise” del tema che funziona come un orologio svizzero, e la seconda puntata si apre con un terzetto assolutamente memorabile, in cui si fa apprezzare chiaramente anche la musicalità dei testi).
E come se non bastasse è interpretata da performer completi che sanno restare fedeli al personaggio senza però per questo penalizzare il lato “cantante” del proprio talento. Il cast infatti è un altro punto di forza di Galavant. Sono tutti ottimi cantanti ed attori brillanti (in qualche caso dando anche prova di saper ballare), dal protagonista Joshua Sasse, ai comprimari (non si possono non citare Timothy Omundson nei panni di King Richard e Mallory Jansen in quelli di Madalena), giù giù fino all’ultimo dei caratteristi, ma tra tanti validi professionisti va assolutamente sottolineata la presenza anche di un altro invisibile, ma fondamentale, protagonista: il ritmo. Un ritmo serrato, costantemente presente nel flusso di battute divertenti, colpi di scena, situazioni risolte con idee registiche proprio come nei migliori esempi di quel genere di umorismo a cui facevo riferimento prima e che non si interrompe mai nemmeno quando partono i numeri musicali di prim’ordine o balletti coreografati appositamente per il mezzo televisivo (qualcuno ha parlato di “citazioni di Busby Berkley” per caso?).
Galavant funziona perché sa mescolare tutti questi elementi e gli dà valore fornendogli una data di scadenza. Già, e qui mi riallaccio al discorso sofistico a cui accennavo poc’anzi: mi piace molto, ma sono contento che duri poco. Perché lo guardi e ti resta la voglia, dopo un episodio, di vederne immediatamente un altro. Finisce il secondo (trasmesso, per l’appunto, subito dopo) e hai una settimana perché l’effetto “sabato del villaggio” ti faccia crescere la curiosità di vedere cos’altro combineranno quel cialtrone -strafigo, ma cialtrone- di eroe od uno qualunque degli altri splendidi personaggi di contorno -cialtroni pure loro-; o magari di ascoltare una nuova canzone che ti scalzi dalla mente quell’accattivante “Ga-la-vannnt” della prima puntata che ti si è inchiodato in testa.
Ma in fondo sai che non avrai modo e tempo per fartelo venire a noia. Sì: l’unico vero possibile neo, di questo gioiellino di musical, è che non penso potrebbe continuare all’infinito senza finire inevitabilmente per perdere il ritmo, e allora ben venga una politica di “lascerò il party quando sarà al culmine”, è troppo piacevole goderselo per rischiare di stancarsene un giorno perché l’altro, invisibile-ma-fondamentale protagonista si è perso strada facendo.
Quindi bravo Menken. Forse hai inventato l’uovo di Colombo o forse no. Forse aggiungerai qualcosa al tuo Palmarès o forse no (in effetti a Emmy sei messo male: una sola nomination e 0 vittorie). Comunque vadano le cose ti sei divertito un sacco e hai divertito noi e poi, come Beyoncé ha insegnato con l’uscita a tradimento del suo ultimo album, in un mercato di offerte diverse ma in fondo con dinamiche che si assomigliano tutte, se fai per primo una cosa che nessuno si aspetta… hai già vinto in partenza!