Ha debuttato la nuova versione di Ghost, il musical. Il pubblico contento, ma c’è qualche perplessità sulla trasposizione.
di Ilaria Faraoni
Dopo due date a Bologna e due anteprime a Roma, ha debuttato ufficialmente nella Capitale, al Teatro Sistina, il 30 gennaio scorso, il nuovo allestimento di Ghost, il musical ad opera di Show Bees, con libretto e testi di Bruce Joel Rubin (lo stesso autore del film cult diretto da Jerry Zucker), musica e testi di Dave Stewart degli Eurythmics e Glen Ballard, importante musicista e produttore discografico.
La trama, per i pochi che non la conoscessero, parla di amore, amicizia, ambizione senza scrupoli, tradimento e riscatto. Sam/Mirko Ranù (un atletico bancario, incapace, pur amandola, di dire alla sua ragazza “Ti amo”) e Molly/Giulia Sol (un’artista) ristrutturano con le loro mani la casa in cui andranno finalmente a convivere, con l’aiuto del migliore amico della coppia, Carl/Thomas Santu, collega di Sam. Sul più bello, Sam verrà ucciso, apparentemente per una rapina finita male. Ma la situazione non è come sembra e il fantasma di Sam dovrà chiedere aiuto a Oda Mae/Gloria Enchill, una truffatrice inconsapevole di avere realmente il dono di comunicare con i defunti, per salvare Molly e fare giustizia.
Lo spettacolo è stato così presentato dal regista Federico Bellone in conferenza stampa: «Questa edizione di Ghost ha una particolarità rispetto a quelle che l’hanno preceduta: si torna molto di più, come nel film, al rapporto e alle relazioni tra i personaggi. Quando è nato, il musical aveva subìto un’attualizzazione: c’erano dei grossi schermi led e la storia aveva luogo ai giorni nostri; la verità è che non ha funzionato, probabilmente perché il pubblico che va a vedere a teatro una cosa che già conosce al cinema non vuole ritrovare la copia carbone: sarebbe un paragone a perdere. Il pubblico vuole ritrovare il ricordo, l’essenza della storia. Abbiamo lavorato proprio su questo. Ci siamo chiesti: “Qual è il cuore di Ghost? Qual è il nocciolo della questione?”. Secondo me il nocciolo della questione è che nella vita è fondamentale avere il coraggio di fare delle scelte, di compiere delle azioni, di saltare sul treno che sta passando, perché purtroppo, la maggior parte delle volte, le occasioni non si ripresentano» (il nostro articolo completo QUI).
Da spettatori, invece, la prima questione che ci si pone quando ci si trova, in generale, davanti ad un’operazione del genere è: era necessario o, almeno, un bene fare del tale film un musical? Nel caso di Ghost, visto che l’autore di entrambe le versioni coincide (Bruce Joel Rubin), si potrebbe essere influenzati e rispondere un “Sì, se l’ha voluto lui… ”. La risposta però non appare tanto scontata. Quando un testo è stato scritto per un altro contesto, che non prevede la musica e il ballo, è molto difficile che la trasposizione in musical non vada a toccare l’equilibrio e il ritmo narrativo.
Per quanto riguarda Ghost, il pubblico della prima è sembrato, in generale, aver gradito l’operazione.
Tuttavia, i numeri e i brani musicali, spesso hanno dato l’idea di essere un’aggiunta non necessaria che spezzava il pathos o il ritmo di una scena.
Su questo argomento anche Bellone stesso aveva commentato in conferenza: «Dal punto di vista coreografico, abbiamo fatto un lavoro molto particolare, partendo sempre da quel nocciolo di cui parlavo prima: tornando ad un Ghost molto più emotivo e fedele alla pellicola, abbiamo cercato di fare in modo che tutte le coreografie uscissero spontaneamente dalla storia e che quasi non ci fossero dei passi di danza, ma delle azioni sceniche che diventassero un numero da musical. Nella versione originale, sebbene il regista Matthew Warchus sia uno dei miei preferiti in tutto il mondo, avevo la sensazione che lo spettacolo si fermasse, partisse un numero musicale e poi riprendesse. Noi abbiamo cercato di fare in modo che ci fosse una grande fluidità e che dall’azione scenica prendesse vita la coreografia in maniera molto spontanea; poi c’è anche un momento molto particolare in cui Oda Mae sogna di diventare ricca, quando si ritrova in mano un assegno da dieci milioni di dollari: in quel caso il numero è quasi da varietà o da videoclip».
Concordando con la premessa del regista, si può dire che questa impressione di stop non sia stata del tutto superata nemmeno in questa edizione, proprio perché, a monte, c’è il fatto di aver aggiunto ad un testo, che rimane molto fedele, con tanto di battute pressoché invariate rispetto al film, le canzoni e le coreografie (firmate da Chiara Vecchi, anche regista associata): un di più, un’aggiunta a posteriori ad un testo che era già completo e perfetto così com’era. E se è pur vero che ad un primo piano che esprime tutto in cinema, in teatro si può ricorrere altrettanto efficacemente ad una canzone che racconti e sviluppi quegli stessi sentimenti, nella pratica la cosa non sempre vale con la stessa efficacia in tutto il percorso narrativo.
Forse un autore diverso da quello del film, che cambiasse quindi il copione in funzione teatrale e, nello specifico, in funzione musical, avrebbe potuto fare un lavoro più “audace” ed efficace anche per risolvere con mezzi alternativi l’assenza di tutto il pathos e della tensione scatenati dagli inseguimenti finali della pellicola che in teatro non potevano essere riprodotti tali e quali: le morti dei “cattivi” risultano perciò un po’ troppo repentine. Una soluzione diversa dal film, per esempio, quella della lettera sul frigorifero che servirà a convincere Molly della buona fede di Oda Mae, è efficacissima, anche più della corrispettiva monetina della pellicola.
A chi, comunque, gradisca ritrovare le battute del film con l’aggiunta di bei numeri musicali, Ghost in versione musical piacerà.
C’è da dire anche che il volume della musica ha sovrastato troppo quello delle voci, rendendo di difficile comprensione i testi delle canzoni (ad opera di Franco Travaglio). Forse anche per questo Giulia Sol, probabilmente anche non nel pieno delle sue potenzialità, la sera della prima, è stata costretta a urlare un po’ troppo.
I brani, che vogliono testimoniare un genere pop/rock anni Novanta, per rimanere fedeli all’ambientazione della storia, ma pur sempre arrangiati originariamente con tutti i crismi teatrali da musicisti di Broadway, nel complesso sono molto piacevoli, spesso a tre voci, con una bella orchestrazione e si adattano bene alle atmosfere della storia. Dissonante invece il brano del Fantasma dell’Ospedale (Ronnie Jones), non per il genere in sé, un blues che fa pensare a New Orleans, ma perché un pezzo di quel sapore, in quel momento, molto drammatico, non sembra legare. Tra l’altro, Bellone aveva spiegato – sempre in conferenza stampa – che il brano era stato tolto per un periodo e poi reinserito per forte volontà dell’autore.
Non stona invece il brano del sogno di Oda Mae, perché quello è un momento di spettacolo puro, fuori da tutto il contesto.
Parliamo degli effetti speciali, punto centrale in uno spettacolo come Ghost. La parte spettacolare è stata affidata ad un professionista come Paolo Carta, l’illusionista che ha curato anche i trucchi di Mary Poppins (sempre diretto da Bellone). Ad ogni effetto il pubblico ha applaudito soddisfatto e bisogna dire che sono riusciti tutti con naturalezza, ad eccezione di quelli sul vagone della metropolitana, nel primo atto, dove si notava troppo un Sam che cercava la giusta posizione per la realizzazione degli spostamenti soprannaturali del suo corpo ad opera del Fantasma della metro (Luca Gaudiano).
Le luci sono firmate dal sempre apprezzato Valerio Tiberi. Un’ulteriore messa a punto tecnica risolverà qualche buio di troppo (nel finale della scena iconica della creta, che qui è spostata più avanti, come ricordo) o di meno (una penombra che ha lasciato vedere alcuni spostamenti della scena che dovevano rimanere nascosti) notati la sera della prima.
Una luce rossa, sfumata, che nascondeva completamente la scena (forse un tantino troppo, almeno da alcune postazioni), è stata l’idea vincente per sostituire le impressionanti ombre nere che portano via le anime dei cattivi utilizzate nel film.
La scenografia, bella visivamente, di design, ideata dallo stesso Federico Bellone, offre con pochi elementi sapientemente mossi e modificati, tutti gli ambienti di cui la storia ha bisogno. Particolarmente di atmosfera l’esterno con il lampione sotto il quale Molly e Sam hanno la loro ultima conversazione prima della tragedia.
Alcuni cambi scena sono stati molto apprezzati, come quello attuato riutilizzando, dalla parte del retro, le gigantesche foto polaroid, trasformate in muri per writers.
Più cambi scena a vista come questo, integrati nella narrazione, darebbero più ritmo ad alcuni passaggi.
Gli interpreti, di buon livello, possono spingere ancora di più sulle emozioni e sui sentimenti dei personaggi; paure, dolori, orrore, ansie: tutto può essere amplificato ulteriormente per colpire allo stomaco gli spettatori.
L’entrata in scena di Gloria Enchill ha dato una spettinata al pubblico perché la performer, dal punto di vista vocale, ha convinto e catturato fin dalle prime note. Sul piano recitativo, Gloria non ha deluso le aspettative nelle parti più sopra le righe e comiche, facendo divertire moltissimo. Nelle parti più discorsive si è sentita a tratti una mancanza di naturalezza che probabilmente si aggiusterà in corso d’opera. Suo il numero forse più difficile, quello già citato del sogno, in cui l’attrice ha dovuto cambiarsi d’abito in un batter di ciglia numerose volte a suon di colpi di trasformismo; e non facendo di mestiere la trasformista, tanto di cappello.
La domanda forse sulla bocca di tutti è: ma c’è il brano Unchained Melody? C’è, c’è: ritorna più volte, declinato sempre in modo diverso, inserito con intelligenza scenica nei momenti giusti.
Il resto del cast: Salvatore Maio (Willy Lopez), Cristina Benedetti (Clara, sorella di Oda Mae), Mitsio Silvia Paladino Florio (Louise, sorella di Oda Mae).
Ensemble: Roberto Torri, Clara Maselli, Manuel Mercuri, Carolina Sisto, Alex Botta.
Swing on stage: Francesco Alimonti, Martina Peruzzi.