Jersey Boys: promozione a pieni voti
Avrò iniziato almeno in quattro o cinque modi diversi questa recensione, ma nessuno che mi convincesse. E quando mi sono interrogato sul perché è stato facile intuirlo: giravo attorno ai discorsi ma la voglia di scrivere, da subito, che Jersey Boys è una delle cose migliori che abbia visto ultimamente a teatro (e se recensire è il tuo mestiere di cose ne vedi davvero parecchie, ndr) premeva.
Sulle dita, nel subconscio, come incipit… l’elogio del critico che non è un complimento ma un plauso circostanziato e ragionato era lì, necessaria, e spingeva disperatamente per vedere la luce. Quindi, con un senso di grande liberazione lo dico e mi tolgo da subito il pensiero: bravo Claudio Insegno, il Jersey Boys che ora impreziosisce (il termine è assolutamente intenzionale) il cartellone del Teatro Nuovo di Milano fino al prossimo 15 maggio è davvero molto bello. Oh! Mi sento meglio. Ma ora, capirete, tocca spiegare.
Innanzi tutto faccio coming out: alla pubblicazione dei nomi del cast ero decisamente prevenuto. Praticamente tutti i performer in locandina sono notoriamente considerati talentuosi ma andando di dreamcast o fantamusical, come preferite (è un altro degli effetti collaterali di questo mestiere: la fantasia galoppa ogni qualvolta scopriamo che è in lavorazione un nuovo titolo) molti mi sono parsi non “centrati”. Sono felice di dire che mi sono ricreduto sul campo. Pardon: in platea. La visione da regista di Insegno è del tutto coerente con i nomi che ha scelto (e mi si permetta comunque di sottolineare il coraggio di scambiare Gismondi e Stabile, inizialmente pensati come Tommy il primo e Gaudio il secondo, dieci giorni dopo l’inizio dell’allestimento e a cast già annunciato. Un atto coraggioso che non è da tutti). E va ammirata poi la sua capacità di dirigere un testo piuttosto lungo, per molti versi fortemente “americano”, che tratta la storia e le dinamiche di un gruppo nato negli anni ’60 (i Four Seasons) che da noi non è famosissimo, e riesce a farlo mantenendo un ritmo degno delle messe in scena di Broadway e del West End senza penalizzare né recitato né musica.
Le intenzioni dei suoi personaggi soprattutto negli scambi, spesso serrati, dei dialoghi sono evidenti e convincenti, segno che il lavoro fatto ha dato buoni frutti, perché diciamolo: fare una regia non significa impostare entrate e uscite in scena (per quello basterebbe un semaforo), ma approfondire con i propri attori personaggi e soprattutto dinamiche, per rendere verosimile la finzione (e reale la magia del teatro).
Gli artisti in scena sono idealmente divisi in due gruppi: i quattro protagonisti e gli altri, che interpretano una moltitudine di ruoli a rotazione. E anche se ovviamente c’è chi colpisce di più e chi di meno, permettetemi di spendere qualche parola di sincero apprezzamento in generale per il livello del cast e poi scendere nel dettaglio per i quattro ragazzi al centro della scena, le “quattro stagioni” (ognuno di loro, sfondando la quarta parete, caratterizzerà nell’arco del musical una specifica stagione della vita del gruppo): cominciando da Alex Mastromarino, che ha indossato in maniera egregia i panni -non facili- di Frankie Valli, un ruolo che richiede non soltanto un bravo attore ma anche e soprattutto doti canore fuori dal comune; Flavio Gismondi, che per l’appunto, una volta approdato al ruolo a lui più congeniale del “bravo ragazzo” ha dimostrato ancora una volta di saper usare con intelligenza tempi recitativi che gli vengono naturali; Marco Stabile il cui Tommy De Vito ha mostrato una rabbia, una fragilità, una spacconaggine che soltanto le persone reali hanno ed infine, ultimo ma non ultimo, Claudio Zanelli, che ha saputo mescolare con grande perizia e intelligenza di palco la recitazione “naturale” con le battute e i tempi comici che il libretto affida al suo personaggio, lavorando “in sottrazione” piuttosto che in enfasi. Ma, come dicevo, applausi a tutti, un lavoro di questo livello è sempre uno sforzo collettivo: Brian Boccuni, Felice Casciano, Giada D’Auria, Massimo Francese, Pasquale Girone Malafronte, Roberto Lai, Gloria Miele, Alice Mistroni, Elena Nieri, Giuseppe Orsillo e Giulio Pangi.
Funzionali e molto belle le scene di Roberto e Andrea Comotti che adattano alle esigenze di un palco italiano una macchina scenica pensata per ben altre situazioni, eccezionali i costumi di Graziella Pera e assolutamente integrato a regia (e ritmo) il disegno luci di Gianluca Brunelli. Le coreografie di Valeriano Longoni sono ovviamente piuttosto facili visto che essenzialmente devono solo riprendere i movimenti del periodo, ma è un “facile” che inganna: Longoni è riuscito a rendere credibili anche persone che, ahimè, non sono proprio famose per le proprie doti tersicoree, lavorando molto perché trovassero lo “stile” del periodo. Il risultato, con la musica, è elettrizzante. Esplosivo.
Già, la musica. Fatemi dire che il suono è grandioso. Il disegno audio di Armando Vertullo e soprattutto la direzione musicale di Angelo Racz sono quanto di meglio questo spettacolo (che dico? qualunque spettacolo!) possa augurarsi. Le armonie vocali del quartetto (e del resto dei performer) sono state impeccabili. E tutto questo mi porta ad esternare un altro, inevitabile, segno di stima per la Produzione che ha dimostrato come, anche se non c’è nulla di male nel voler avere un legittimo ritorno economico dal teatro, questo ritorno dovrebbe avvenire risparmiando sui taxi (…no: non intesi come mezzo di spostamento in città, no) investendo semmai in orchestre dal vivo. Di nove elementi. L’esperienza – non soltanto sonora – che il pubblico ne ricava è di tutt’altra portata.
Concludendo, dovessi dare un voto allo spettacolo sarebbe dieci, e mi riservo del tempo per decidere se assegnare anche la lode tornando a teatro a fine repliche. Perché anche Jersey Boys ovviamente ha qualche spigolosità che mi auguro il tempo e il rodaggio sistemino. Far ridere con una macchietta di gay alla Lino Banfi en travesti per esempio, rendendo “sopra le righe” (eufemismo per “scheccata”, ndr) ogni singola battuta del personaggio (anche quelle normali) è inutile, e le risate che si generano non sono intelligenti come gli applausi di cui il resto dello spettacolo può a diritto fregiarsi.
Alice Mistroni è perfetta nel ruolo di una Mary Delgado sfrontata, ma penso che debba ancora dare qualcosa al personaggio quando questo ha una parabola discendente. E se prima elogiavo lo stile che Longoni ha fatto trovare singolarmente ai suoi Four Seasons, questi come “gruppo” devono ancora lavorare per arrivare alla pulizia dei movimenti dei loro corrispettivi britannici ed americani.
Ma appunto, rendetevi conto che se di mestiere si scrivono recensioni è molto, molto raro avere la voglia di rivedere uno spettacolo. E Jersey Boys, spettacolo da dieci (in odore di lode), questa voglia me l’ha fatta venire appena uscito dal teatro.