“Musica Ribelle – La Forza dell’Amore”, il musical con le canzoni di Eugenio Finardi e la regia di Emanuele Gamba
di Lucio Leone
Comincerò subito con il dire che non ho ben capito il piccolo discorso introduttivo che Pietro Contorno, autore del soggetto originale, ha tenuto a fare ancora a sipario chiuso in occasione della seconda replica milanese di Musica Ribelle, il musical prodotto da Todomodo e Bags Entertainment che propone, con le canzoni di Eugenio Finardi, una storia ambientata in un arco temporale che va dal 1973 al 2017 mettendo a confronto due generazioni in un continuo gioco di flash back e flash forward.
Ora, passi l’avviso ad uso degli abbonati non esattamente adolescenti che riempivano la platea per oltre due terzi delle poltrone disponibili che il linguaggio usato non sarebbe stato da educande. Lo capisco. Si temeva che senza un avvertimento, alla reiterazione di parole con diverse T, Z o R di troppo potesse partire qualche coronaria in sala (si sa: l’abbonato tipo dei teatri milanesi è specie protetta e in via di estinzione). Quello che davvero mi è sfuggito è stato il cappello del «è difficile capire che tipo di spettacolo sia, c’è musica ma tanta prosa, tanto che anche i critici faticano a definirlo». Oh bella, mi sento chiamato in causa. Io non ho proprio nessun problema a definirlo per quello che è: un musical. Che, malgrado l’opinione che il mondo della prosa ha del genere, non è mica una parolaccia, come del resto dimostra il suo difettare di T, R e Z.
Certo, capisco la perplessità: le platee italiane (e cosa ancor più grave, anche molti addetti ai lavori del musical stesso) troppe volte confondono il termine con paillettes, risatone, nostalgia da pellicola anni ’80 ricucinata come novità con la scusa che il pubblico la pretende e/o l’intrattenimento recitato da esagitati eredi dell’avanspettacolo, ma per chi torna alla radice delle cose, un musical questo è: un testo con la musica che si integra alla storia, che contribuisce non solo a divertire e a far sbattere il piedino ma offre agli autori la possibilità di articolare la narrazione, esattamente come i dialoghi. Che, guarda caso, vanno recitati. Non declamati, non detti, non sottolineati in attesa di un colpo di grancassa che peraltro non arriva più: semplicemente recitati. Ecco, Musica Ribelle è tutto questo.
E la recitazione, lo dico subito e con molta soddisfazione, è davvero buona. Chi conosce il mio lavoro di critico sa quanto io tenga a questo aspetto. Massimo Olcese, con la sua esperienza di palco è una conferma che non stupisce, ma per una volta vedere che la parte giovane del cast, che Federico Marignetti e Arianna Battilana (lo stesso si può comunque dire anche del resto dei “ragazzi”) sono altrettanto veri, hanno il talento, la sensibilità e la tecnica necessari a non sfigurare di fianco ai colleghi con maggiore esperienza è una boccata d’aria fresca.
In questo sono stati molto aiutati dalla regia di Emanuele Gamba, che ha saputo dirigerli, dare risalto alle loro capacità, creare un buon ritmo che aiuta a mantenere costante l’attenzione (qualche rallentamento, qualche ingenuità in piccole cose confido siano solo asperità che il rodaggio del palco aiuterà ad eliminare). E come se non bastasse, esattamente per come era stato per Spring Awakening, si usano proiezioni integrate allo spettacolo e non pornograficamente didascaliche. Che sollievo.
Sul versante musicale poi le canzoni di Finardi sono già, in partenza, piccole storie, non stupisce quindi che sappiano integrarsi al libretto quasi fossero liriche nate apposta per il palcoscenico. Del rischio tipico dei jukebox musical, in cui l’anima pop dei brani traspare e rende evidente il meccanismo di adattamento, qui non c’è fortunatamente traccia. Ho detto prima che gli interpreti sono bravi a recitare? Ok: lo sono, e molto, anche dal punto di vista musicale. Cantano bene (la direzione dell’ottima band e gli arrangiamenti vocali sono di Stefano Brondi), i brani sono ben arrangiati (Emiliano Cecere e Valerio Carboni) e per di più anche il disegno fonico (William Geroli) ci ha messo del suo perché si potesse godere appieno della parte canora e musicale. Adeguate ai cambi di atmosfera le luci di Marco Giusti, ben pensata e realizzata la scena di Massimo Troncanetti, decisamente più sopportabile rispetto all’esperienza di Spring Awakening la presenza del volenteroso cast aggiunto fornito da un’accademia teatrale di Milano, malgrado in alcuni momenti la regia abbia sottovalutato l’effetto saggio con il sovraffollamento e il relativo rallentamento nelle uscite di scena -a questo proposito, riferendomi al cast, aggiungerei però l’aggettivo “incolpevole” a “volenteroso”-.
Tutto perfetto? No, qualche problema lo spettacolo lo presenta, essenzialmente dal punto di vista del testo di Francesco Niccolini. La storia, a dire il vero, c’è. È una storia nostra, condivisa e verosimile, che parla di come i giovani e i sogni dei giovani siano sempre gli stessi. Cambiamo noi, cambiano mode e generazioni, ma i sogni, e la musica che spesso aiuta questi sogni a vivere e li porta in alto no. Una storia che parla di contestazione giovanile e degli anni ’70, del colpo di stato di Pinochet e di Victor Jara, della nascita delle prime radio libere e dell’insopportabile verbosità dei collettivi autogestiti, della bellezza dei sogni di libertà e di come questi siano stati inquinati dagli anni di piombo. E poi parla di una nuova generazione di oggi, di graffitari, di ragazzi che sembrano tanto duri ma in realtà presentano le stesse fragilità dei ragazzi di ogni epoca. E qui partono però le magagne. Niccolini malgrado la sua esperienza di uomo di teatro casca spesso nella retorica che sottolinea come in realtà, a raccontare questa necessaria -il termine non è casuale- nostra storia sia un appartenente alla generazione che ha già vissuto se non proprio tutto, perlomeno molto. Lo si avverte da una vena paternalistica che pervade buona parte dei dialoghi e dall’uso di certe parole indicative del problema (sul serio? Il personaggio simil-punkabbestia di Battilana davvero dice “matusa” e “questo è strafigo”? E le tirate che confondono bellamente Facebook, Skype ed Amazon usati insieme o indifferentemente come paradigmi di modernità?).
Credo sia comunque uno spettacolo con moltissimo potenziale, già piacevole così che comunque, se “risciacquato” di cliché e riscritto per raccontare non soltanto il punto di vista soggettivo di una singola generazione possa diventare anche molto solido drammaturgicamente.
Musica Ribelle resterà fino all’8 ottobre 2017 al Nuovo di Milano, di seguito sarà a dicembre alla Pergola di Firenze e a marzo al Comunale di Reggio Emilia.
Lo rivedrei? No: lo rivedrò, di sicuro, e con piacere. Con l’augurio, sincero, che possa ancora migliorare.
Non hai niente da dire dei tecnici che entrano in scena durante lo spettacolo per spostare A MANO la scenografia?? e se posso permettermi, non provano nemmeno a nascondersi o ad entrare con il buio.. raccapricciante