Quaranta e non sentirli
di Lucio Leone
I suoi primi 40 anni.
Ad essere precisi sono passati ben 42 anni da quando per la prima volta il Rocky Horror Show andò in scena in un teatrino-ino-ino che più piccolo non si può.
Si era all’inizio degli anni ’70, il messaggio portato dalla rivoluzione dei figli dei fiori aveva appena iniziato a mutare verso un mondo diverso e meno impegnato e nessuno poteva immaginare quanta fortuna avrebbe avuto in futuro il pastiche che un certo attore neozelandese disoccupato (lo sconosciuto Richard O’Brien) aveva composto per impiegare il tempo tra una -rara- scrittura e l’altra.
Così, mentre mi dirigevo verso il Teatro della Luna per la prima dell’European Tour 2015 del Rocky Horror, non potevo fare a meno di chiedermi se questi 40 e spingi anni si sarebbero sentiti, se il rutilante carrozzone di transilvanici in trasferta terrestre sarebbe stato in grado di coinvolgermi ancora una volta, se lo spettacolo lo avrei trovato invecchiato visto che il tempo passa per tutto e tutti e di conseguenza pure io non sono più lo stesso che si era entusiasmato vedendolo per la prima volta tanti e tanti anni fa, nell’ormai dimenticato Teatro Cristallo.
L’unica cosa che non sentivo di mettere in discussione era la storia. Perché il Rocky Horror nasce come parodia, un gioco sottile di colte citazioni divertite e divertenti e non come inno alla liberazione personale o sessuale come invece a volte viene ricordato. E questo tipo di leggerezza non invecchia, ma anzi semmai migliora e si arricchisce col passare del tempo quando è capace di accogliere nuovi spunti e inserire nuove citazioni, come è giusto che sia.
E’ bastato però il primo acuto, la prima variazione di Riff Raff (Matthew Price) nell’assolo di Over At The Frankenstein Place per fugare ogni dubbio. Ogni piccolo, fastidioso, inutile dubbio: la qualità dell’allestimento è davvero superba e ti permette di giudicare lo show al riparo da ogni impressione personale. Per dirla in maniera semplice questi performers sono davvero, davvero bravi. Per presenza, capacità, talento. Di conseguenza sei libero di rilassarti e renderti serenamente conto che non è solo la storia-parodia a funzionare, ma proprio tutto il meccanismo.
Sono passati 40 e spingi anni? L’età per un classico è un dettaglio: vuol solo dire che era ora di “svecchiare” un po’ alcune cose, ed infatti lo spettacolo che ci è stato offerto è stato da un lato ripulito da certi vezzi stratificati che appesantivano la recitazione e lo show senza nulla aggiungervi, e dall’altro ha saputo recuperare lo spirito delle canzoni regalando loro nuove sonorità più moderne con strepitose nuove orchestrazioni e arrangiamenti.
Parlavo prima della bravura di Riff Raff, ma potrei dire lo stesso di Magenta, Columbia e Rocky ad esempio (al secolo Maria Franzén, Hannah Cadec e Vincent Gray, quest’ultimo un modello Abercrombie di taglia S, ma che sa pure cantare, e cantare bene!). Hanno una padronanza, una agilità che spiazzano. Ed erano ottimi anche Brad e Janet (David Ribi e Harriet Bunton, tornati ad essere fidanzatini anni ’50 con tanto di gonne a ruota e cappellino alla Jackie Kennedy), così come è assolutamente perfetto il nuovo Frank-N-Furter: Rob Fowler, con una virilità esibita in maniera più evidente rispetto al cliché codificato dell’ambiguità che sembrava imprescindibile dopo Tim Curry. Ma questa camminata testosteronica, questa fisicità da rocchettaro in guepiere funzionano e cogliendoti di sorpresa sono in grado di mettere in moto un meccanismo che permette anche a chi conosce molto bene lo spettacolo di gustarne sfumature diverse, di approfittare di una angolatura inedita. La scena del Don’t Dream It per esempio è capace in un colpo solo di riprendere scenografia e costumi di King Kong (l’originale del ’33), mescolandoci insieme le coreografie di Busby Berkley e per finire i ventagli di Zizi Jeanmaire. Semplicemente da manuale!
La macchina scenica è imponente, con una cornice da luna park di luci colorate, intelligente uso delle proiezioni e nuovo gioco di citazioni nella scenografia (una per tutte: Riff Raff e Magenta nella loro scena finale “indossano” degli outfit a metà tra i Dalek del Doctor Who e un albero di Natale), così una grande energia la regala la band dal vivo. Sono “solo” in sei ma sembrano il doppio. Lo ammetto, mi sono ritrovato a fare il segno da rocker verso il palco a fine spettacolo per omaggiare il loro lavoro. Io, io che faccio il segno rock, “nato” come sono con i musical vecchia Broadway! Ah, se tutti gli spettacoli italiani potessero contare su una qualità sonora (e un service audio) così!
Concludendo, il classico regge. Regge bene il passare del tempo, e regge molto bene anche questa regia. Dispiace solo per alcuni piccolissime cadute di ritmo che strizzano ancora un pelino troppo l’occhio al codificato, all’audience partecipation. Pause e sospensioni per dar modo alla platea di urlare domande e risposte ai personaggi che però onestamente non penso servano: il pubblico continua ad amare questo show a prescindere, pur senza sapere che alla battuta X deve corrispondere l’urlo Y. Mettiamola così: se ce l’infili l’urlo bene, se no amen, ma non aspettare che arrivi. Così come dispiace per l’unica nota non di livello che è la figura del “Criminologo” (attenzione: nel copione è esattamente questo il ruolo che gli è affidato, e non quello di ” Narratore” come invece sembra essere diventato). A interpretarlo è stato chiamato Maurizio Lombardi, attore nostrano che purtroppo, tra traduzioni non proprio riuscitissime e “salto” linguistico tra l’inglese dell’azione scenica e italiano delle sue battute, risulta elemento estraneo al ritmo dello spettacolo.
Avevo già finita questa recensione, e rileggendola mi sono accorto di aver finito con una nota critica che non gli renderebbe giustizia. Nossignore. Perché questo è un musical fatto proprio come ogni musical dovrebbe essere fatto. Sempre. Per cui, a rischio di ripetere l’ovvio, propongo un Finale B alla recensione ripetendo nuovamente l’invito a non perdere questa festa di colori ed energia che è il Rocky Horror. Augurandogli altri 40 e spingi anni di grande, meritato successo. E se il livello dell’allestimento resta questo prometto che anche in carrozzina -cit. il Dottor Scott- sarò di nuovo ad omaggiarlo in prima fila facendo il segno da rocker con le mani! Artrite permettendo.