Al Politeama Rossetti brillano le stelle del West End
di Sandro Avanzo
La storia ci insegna che il nome del compositore precede sempre quello dell’autore dei testi. Non è un caso che anche per Sunset Blvd. tutti gli appassionati ricordino subito Andrew Lloyd Webber prima dei titolati librettisti Don Black (Thunderball, Diamonds Are Forever) e Christopher Hampton (Le relazioni pericolose, Mary Reilly, Carrington).
Lo stesso accade nella prassi teatrale anche degli allestimenti scenici britannici e americani dove l’attenzione per la musica, per l’orchestra, per l’equilibrio dei volumi in sala viene posta al primo posto, prima ancora di qualsiasi altro aspetto dello spettacolo sul palco; principio valido anche negli allestimenti da tour.
Aver assistito al debutto triestino dell’unica tappa italiana del Sunset è stato insieme una verifica di tale pratica e un godimento in primo luogo per l’udito: 16 elementi d’orchestra (+ il direttore) perfettamente equilibrati con le voci degli interpreti in ogni momento dello spettacolo sia nelle scene di canto sia nel recitato, e tutto egualmente distribuito in tutta la magica sala blu del Teatro Rossetti (in Italia decisamente inusuale, vero?).
Allo stesso modo si restava incantati dallo studiatissimo disegno luci di Ben Cracknell sempre attento a mettere in evidenza il particolare, l’insieme o il dettaglio più importante della scena in funzione dell’atmosfera o della tensione drammatica pensata dalla regia (quanto mai indicativo, in tal senso, il numero a due Girl Meets Boy del secondo atto tra lo sceneggiatore protagonista e la giovane aspirante scrittrice). Senza mai citare in modo esplicito il B/N del film di Billy Wilder che sta alla base del lavoro teatrale o ricorrere a contrasti espressionisti, i riflettori riuscivano in ogni momento a riportare alla mente anche le immagini della pellicola originale e a ricostruire il clima torbido e avvolgente dei tanti noir degli anni ’40-’50.
Il riferimento registico riconoscibile (una sorta di libero adattamento) era comunque all’allestimento “minimalista” londinese firmato da Lenny Price nel 2016 con Glenn Close passato lo scorso anno da Londra a Broadway. Con ampi spazi di creatività autonoma il regista Nikolai Foster ha qui attuato un’indovinata idea di ambientazione dell’intera vicenda in un ideale backstage astratto a scatole cinesi, un po’ teatrale e un po’ studio cinematografico, valorizzando nell’essenzialità della messa in scena sia la forza del copione che la mostruosità dell’intreccio.
Come nell’edizione con la Close, anche qui i simboli contano più della sontuosità barocca dell’originale del ‘93, siano essi lo scalone stilizzato, le proiezioni di assurdi film muti, l’organo del fedele maggiordomo Max che allieta le serate solitarie della diva decaduta, o il gigantesco ingresso agli Studios della Paramount.
Sono i personaggi e le loro nefandezze a emergere nella propria assoluta grettezza o titanica follia (nessuno di loro è un innocente, lo aveva ben delineato nel suo film Billy Wilder), è l’inferno della scalata/discesa verso il successo a vincere su tutto e a triturare ogni residuo di loro umanità: Dreams are not enough to win a war/Out here they’re always keeping score/Beneath the tan/The battle rages/Smile a rented smile/Fill someone’s glass/Kiss someone’s wife/Kiss someone’s ass/We do whatever pays the wages.
Non tutti i performer hanno però colto questo fondamentale aspetto del musical originale, per primo Adam Pearce, che nel ruolo di Max spinge la sua magnifica voce verso tonalità basse talmente abissali da restituire quasi una caricatura del personaggio che dovrebbe far vivere in scena. E questo suo atteggiamento, parzialmente contagioso per gli altri suoi compagni di palco, ci permette di dire che forse una lettura un po’ più camp da parte del regista (meno realismo e più ironia), avrebbe forse giovato maggiormente allo spettacolo. Solo in una lettura camp possono emergere appieno – e così diventare verosimili e davvero drammatiche – la mostruosità del funerale di una scimmia, di un fustacchione toy boy che accetta di farsi prosciugare l’esistenza da una vegliarda che come una mantide/tarantola gli succhia insieme vita, sentimenti etici, ambizioni e speranze o ancora l’autodistruzione di una mente geniale che per amore o compassione si riduce da regista di massimo livello a scrivano di false lettere di falsi ammiratori.
In un tal disegno si colloca assai meglio l’affascinante Danny Marc che sa giocarsi bene il ruolo di un Joe Gillis dal fisico da Big Jim (sorprendente quando in short emerge dalla piscina) in contrasto con un atteggiamento tra il dimesso e la vittima designata. Dotato di un ottimo timbro carezzevole e vellutato è anche un attore di assoluta presenza scenica e di un’espressività capace di sfumature che non lo fanno sfigurare affatto rispetto ai “mostri sacri” che l’hanno preceduto nello stesso ruolo, da Michael Ball a Michael Xavier.
Su tutti emerge, ovviamente, Ria Jones che qui interpreta il ruolo di una vita. Troppo giovane negli anni ‘90 per restare in scena quando Andrew Lloyd Webber le affidò le prime esecuzioni del Sunset al Sydmonton Festival, ha ora l’età adeguata al personaggio e la giusta maturità per restituire magnificamente tutte le manie, i vizi, le assurdità, l’abissale solitudine delimitata da sbarre fatte di egoismo ed egocentrismo della diva al tramonto. Da cantante sa superare le asperità di una partitura davvero complessa (da brivido il suo As If We Never Said Goodbye, ma indimenticabile anche in New Ways to Dream) e da attrice sa far vibrare il pubblico con battute entrate nella storia e dunque oggi impronunciabili come “I Am Big, It’s the Pictures That Got Small” o “We didn’t need dialogue. We had faces”. Non è certo un caso se, quando a Londra ha sostituito la Close nella settimana di sua laringite, è riuscita a conquistare in pochi minuti tutti gli spettatori insorti all’annuncio in teatro (vedere il video su Youtube per crederci!). Oltre alle non comuni doti canore che le permettono dei passaggi da brivido dai toni alti ai bassi e viceversa, si fa applaudire per dei pianissimo assolutamente personali, di incredibile purezza e di totale magistero. In più si può avvalere di una rara eleganza di portamento che le permette di risaltare al massimo ogni volta che compare in uno dei numerosi (quasi un intero catalogo di moda ’20-’50) colorati e scintillanti costumi di Colin Richmond.
Davvero in parte e adeguati anche tutti gli altri comprimari a partire da Molly Lynch in grado di disegnare una Betty Shaffer decisa e ancora innocente (ma vittima della propria inesperienza affettiva) per arrivare a Carl Sanderson nei panni di Cecil B. DeMille. Il suo Surrender da basso-baritono tornerà a lungo nei nostri ricordi come modello di approccio vocale e di interpretazione attorica.
E che dire dell’ensemble a cui sono affidati i numeri di danza? Sempre omogeneo, sempre sincronizzato, sempre intonatissimo sia nelle pagine corali che negli assoli. Si vorrebbero sempre vedere compagnie così ben amalgamate e coese.
Il Rossetti promette per la prossima stagioni altri nuovi lavori di livello altrettanto elevato. C’è solo da augurarsi che succeda davvero.